2.2.1 Ideologie e solidarietà linguistiche, fuori e dentro la classe

In molte società multilingui, come abbiamo visto nello specifico per la Nigeria, le scelte linguistiche istituzionali si riflettono limpidamente in seno al sistema dell’istruzione pubblica – e non solo–, in seguito a quelle che sono le ideologie linguistiche nazionali (cfr. Blommaert, 2016, 2009, 2006; Rampton, 2008). Non è raro che tali ideologie e politiche linguistiche nazionali portino all’estinzione delle varietà non-standard; come possiamo, tra l’altro, osservare per il caso di alcuni dialetti italiani.

Le scelte linguistiche a livello istituzionale, nella storia, sono state anche rilevate come tra le principali responsabili per la promozione di alcune élite linguistiche e culturali a scapito di altre comunità di parlanti. Tale dinamica è riscontrabile in Nigeria, per quanto riguarda il prestigio di cui gode l’inglese standard, ma non solo. Anche in Italia si privilegia l’italiano standard al posto delle varietà regionali, a vari livelli (istituzioni, istruzione, mercato del lavoro, etc.); portando a una perdita di prestigio di quelle lingue che storicamente sono le lingue madri di numerose comunità di parlanti.

Inoltre, spesso sono proprio gli insegnanti a informare ed educare gli apprendenti sul fatto che le loro lingue madri, definite come dialettali (i.e. varietà non-standard come L1), riflettano la loro storia e le esperienze della loro comunità; così come sul valore di queste varietà come simbolo di solidarietà linguistica (Yiakoumetti e Mina, 2013, p. 217). Il ruolo degli insegnanti, quindi, non è da sottovalutare per la preservazione del patrimonio culturale e linguistico proprio delle società multiculturali, in un’ottica che procede contro l’assimilazione totale delle comunità cosiddette non- native o semplicemente regionali.

Il potere assegnato alla varietà standard della lingua, il suo prestigio in termini sociali e l’influenza che questo genere di politiche linguistiche hanno nei confronti della società sono fenomeni illustrati magistralmente da Rampton et al. (2008) in un breve saggio dal titolo Language, Class and Education. In questo caso, la parola class, non sta per ‘aula’ o ‘classe scolastica’, ma per classe sociale. Nella società contemporanea la lotta di classe ha lasciato lo spazio allo scontro tra il ‘nativo’ e il ‘non- nativo’, come possiamo notare anche dalle derive nazionaliste degli ultimi anni, a livello internazionale come in Italia. Tra un ‘noi’ e ‘loro’, per così dire. Spesso e volentieri gli argomenti a favore di questo genere di differenziazioni citano la lingua come strumento di costruzione e definizione dell’identità nazionale e comunitaria. Questo è uno degli aspetti delle ideologie linguistiche qui prese in esame e da cui il presente elaborato trae ispirazione e verso le quali si vuole porre come riflessione necessaria.

Rampton, nel lavoro sopracitato, illustra come le società moderne abbiano adottato e reso ‘standard’ una certa lingua attraverso precise politiche nazionaliste. Inoltre, l’autore precisa che l’adozione di politiche linguistiche nazionali si sarebbe evoluta a partire dal XIX secolo con la rivoluzione industriale. Al tempo, esattamente come oggi, la differenza tra le varietà standard e quelle non-standard era funzionale alla definizione dell’identità degli stati nazione che andavano costituendosi. La relazione tra lingue standard e non-standard era indice della differenza tra le classi sociali, considerato anche il fatto che la scuola pubblica universale in Inghilterra fu istituita negli anni ’70 dell’800, così come in Italia grazie alla legge Coppino (1877). Quindi, il diritto all’istruzione per le classi sociali più basse coincideva con la crescita dell’ideologia legata al prestigio della varietà standard nazionale, la quale era già appannaggio delle classi sociali più elevate. L’educazione linguistica e l’istruzione in generale in Italia, Inghilterra e Stati Uniti erano considerati i mezzi più adatti per promuovere l’autodeterminazione degli individui e l’armonia sociale (Rampton, 2008). Secondo i loro promotori, avrebbero attenuato le differenze sociali e influenzato positivamente l’egualitarismo e l’unificazione. Anche se, nel XIX e nel XX sec., l’istruzione per tutti fu in effetti il prodotto di una lotta, il risultato di un processo di esclusione e gerarchizzazione più che una distribuzione egualitaria del sapere (Collins and Blot, 2003).

Un certo parallelismo è riscontrabile nelle politiche colonialiste adottate dai paesi europei nei confronti delle rispettive colonie, per quanto riguarda l’istruzione riservata ai ‘nativi’. La lingua diventa quindi strumento di potere al fine di definire le differenze sociali, culturali e politiche di una comunità di persone o di una nazione su altri. In sostanza, nella produzione di quelle che sono definite identità subordinate. I sistemi coloniali di istruzione erano/sono stratificati. Specifiche risorse linguistiche appartenenti a certi ceti sociali erano/sono presentate come l’idioma della nazione e della modernità, con la promessa di un impiego remunerativo e, fondamentalmente, di potere – similmente a quanto abbiamo osservato per le scelte linguistiche in Nigeria.

Nel contesto post-coloniale, infatti, le nuove leadership sono state costituite da coloro che eccellevano nell’istruzione coloniale, i quali hanno poi avuto modo di condurre studi più avanzati nei centri metropolitani dell’impero, per quanto riguarda ad esempio l’Inghilterra e le sue ex-colonie in Africa. L’interesse personale di tali leadership e della loro classe sociale era, immediatamente dopo l’indipendenza, vestito di fervore nazionalista e sotto l’insegna del cambiamento la priorità fu data alla massimizzazione dell’accesso all’istruzione, piuttosto che a un cambio del sistema offerto dai coloni (Rampton, 2008). In questo modo, le gerarchie linguistiche del colonialismo furono riprodotte – o addirittura estese – e il mantenimento della lingua coloniale come mezzo di istruzione e alfabetizzazione fu legittimato (i) in nome dell’unità nazionale per le società divise su base etnica, (ii) per un miglior sfruttamento delle risorse economiche, (iii) per mantenere le risorse didattiche e i materiali stampati disponibili e (iv) per simbolizzare la modernità e il progresso (Fardon and Furniss, 1994). Allo stesso tempo, questa classe sociale al potere ha trovato come massimizzare le opportunità per far acquisire ai propri figli le varietà di prestigio di lingue come l’inglese o il francese, attraverso l’uso in casa, alla scuola dell’infanzia o durante l’università presso le città ex-coloniali dove l’influenza di queste lingue restava forte. Contemporaneamente, hanno cercato di far entrare i figli nell’élite globale grazie a impieghi ben pagati e di grande mobilità.

Il resto della popolazione è diventato più o meno marginale (a seconda del benessere generale dei paesi di riferimento) o ha avuto accesso alle varietà giuste delle lingue potenti attraverso la migrazione di massa verso le città simbolo del potere coloniale, dove si sono inseriti nei settori meno pagati dell’economia, diventando membri delle classi operaie locali (Rampton, 2008, p. 76).

Questa panoramica sulle ideologie linguistiche legate al potere e al prestigio di una varietà nei confronti di un’altra, qui sopra brevemente descritta, potrebbe essere utile per ragionare sulle conseguenze del relazionarsi con persone provenienti da simili ambienti culturali. Operare determinate scelte linguistiche, da insegnanti, senza aver consapevolezza dei meccanismi dietro a quella che appare una scelta semplice (i.e. parlare in inglese con persone provenienti da una ex- colonia della Regina d’Inghilterra), potrebbe essere più significativo di ciò che appare. Gli studenti della classe provengono da un paese angolofono, ma perché utilizzare l’inglese potrebbe non essere la scelta migliore? Riconoscere il valore identitario non subordinato delle varietà non-standard significherebbe quindi approcciarsi ai rispettivi parlanti senza proiettare su di loro l’ombra di questa subalternità, attivando un meccanismo di solidarietà linguistica e fiducia che si rispecchia direttamente nella maniera degli studenti di partecipare alle lezioni, come vedremo più approfonditamente nel Cap. 3.

L’accettazione o la presenza attiva delle varietà non-standard in classe e nei contesti di educazione linguistica multiculturale è un tema caro ad alcuni studiosi (cfr. Arrigoni, 2011; De Oliveira, 2014; Siegel 2006; Yiakoumetti, 2011; Yiakoumetti e Mina, 2013). Tra questi, è opportuno ricordare in particolar modo il lavoro di Siegel (2006), al quale l’autore ha impresso un titolo che ricorderà il presente lavoro: Pidgin in the Classroom.

In questo interessante studio, l’autore illustra i benefici dell’adottare le varietà non-standard in classe partendo da due semplici domande (Siegel, 2006, p. 55): (i) perché non trattare il pidgin come un ponte verso lo standard, piuttosto che un ostacolo? (ii) Potrebbe essere, questa, una migliore tecnica per insegnare ai nostri ragazzi? La nostra risposta è positiva a entrambe le domande.

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